È stata una mattinata davvero insolita quella di sabato 17 agosto 2013 nella proprietà di Dino Vidotto a Salgareda: Dino, infatti, è un grande appassionato della lavorazione artigianale del ferro. Dopo una vita trascorsa a fare il meccanico motorista, ha deciso di dedicarsi, ormai quasi a tempo pieno, a quella che per lui resterà la seconda vera passione della sua vita: la forgiatura del ferro.
Un’arte, quella del fabbro ferraio, appresa nel tempo e legata alla sua abilità, ma anche stimolata da un’indole artistica, quella che spesso gli artisti artigiani di un tempo possedevano e che anche lui ha riscoperto da alcuni anni.
Pierlugi Cibin e Aidi Pasian sono stati da lui invitati ad assaporare e poter così documentare la riscoperta di quest’arte, oggi poco ricordata, ma che merita un’analisi più approfondita.
Così, in un’epoca in cui il lavoro a catena, meccanico e ripetitivo, sembra lasciare il passo alla creatività del singolo, ci è sembrato di essere addirittura catapultati dentro uno spazio senza tempo, quello della casa di Dino Vidotto che, dopo una giornata di intensi preparativi, coadiuvato da alcuni amici, in particolare da Graziano (Guido) Scolaro, bravissimo realizzatore di modellini, per lo più in legno, ha presentato un’esposizione dei prodotti da lui realizzati in tanti anni di fervida passione.
La nostra attenzione è stata catturata subito da una serie di oggetti tipici: la forgia, dove il calore dato dall’utilizzo del carbon coke, ha permesso a Dino di dare un’adeguata dimostrazione forgiando appunto alcuni pezzi di ferro sopra l’incudine, anch’essa un pezzo d’antiquariato che risale ad un secolo fa; poi ha mostrato una serie di arnesi usati dal fabbro per forgiare il ferro, tutti posti in bella mostra sopra un tavolo convenientemente addobbato per l’occasione, e infine altri utensili o attrezzature usati un tempo non solo dal fabbro ferraio (fàvaro) ma anche dal marangon o dal boter.
Ma procediamo con ordine, secondo le varie fasi dell’esposizione.
Dino Vidotto ha inziato ad accendere con del legno il carbone utilizzato nella forgia, operazione lunga perché effettuata con metodi simili a quelli antichi e che risalgono ancora ai tempi dell’età del ferro. Una volta che il carbone è diventato brace ardente, il fabbro vi ha inserito dei pezzi ferro da forgiare o sistemare.
Poi, quando ciascuno ha raggiunto la temperatura adeguata e tale da aver superato il colore arancione fino ad arrivare al giallo incandescente, quasi bianco, ha cominciato a forgiarli sopra l’incudine, maneggiandoli con provata maestria e battendoli con un martello da un chilogrammo; ha così dimostrato, anche concretamente, l’origine tecnica del vecchio e notissimo detto “bisogna batar el fero fin che el é caldo”.
Una volta conclusa l’operazione della forgiatura, Dino ha mostrato parte dell’attrezzatura posseduta, commentando l’uso di ciascun oggetto: le pinze e le tenaglie, non solo quelle del fabbro, ma anche quelle in uso al maniscalco, un trapano portatile manovrabile a mano, stampi per fare chiodi, ferri di cavallo, di asino o di bue, degli stagnatori da scaldare con la forgia. Ma aveva esposto anche un trapano a colonna con tanto di volano, che andava girato “a mano” tramite una manovella piuttosto grande, ed un gasometro per la produzione di acetilene: un attrezzo che – se fosse stato utilizzato in modo improprio – avrebbe potuto anche esplodere, quindi era piuttosto pericoloso, da usare con molta perizia e cautela.
Un’ulteriore sequenza espositiva è stata quella riferita agli attrezzi usati più specificamente dal falegname, dal marangon o dal boter: vari tipi di seghe, un trapano da falegname, una serie di pialle (in dialetto venivano chiamate comunemente piana, anche se, ognuna di esse, aveva un nome specifico, in rapporto alla particolarità del suo utilizzo). Molte avevano profili particolari per lavorazioni speciali o, come le pialle più grandi ( che venivano denominate soramàn) che venivano usate per esempio dal marangon per spianare o togliere dalle tavole il legno in eccesso, nonché un strussìn (uno strumento adoperato per fare un segno sulle tavole di legno, parallelo al bordo, e sapere così dove tagliare), oppure un dignariol, specialmente usato dal bottaio, che serviva a fare delle adeguate scanalature, e ancora una sessola e falcetti di diversa foggia da usare a mano in agricoltura.
Della particolare affilatura della lama di una falce, Dino ci ha dato una dimostrazione pratica: nei campi o in palude non c’erano sedie, perciò l’operazione doveva essere fatta mettendosi seduti a terra e comportava una certa competenza e capace abilità. Infatti, l’arte di battere il filo del tagliente non era facile: il metallo poteva “sfarfallarsi” ed il filo non risultare adeguatamente lineare e continuo mentre, se i colpi erano dati con troppa forza, poteva frastagliarsi e offrire una discontinuità del tagliente poco adatta alle esigenze operative della falciatura. Una volta battuto il filo della falce, questa veniva issata sul manico. L’affilatura definitiva, però, doveva essere effettuata con la cote, la pietra abrasiva contenuta nel coder – un corno di bue svuotato e riempito con acqua – che il contadino doveva sempre portare con sé legandola alla cinta, quando andava a falciare.
Sul tavolo immediatamente successivo ecco risaltare invece alcune delle opere in ferro battuto realizzate da Dino Vidotto: serpenti, arbusti di vite con le foglie, portafiori, candelabri, una bilancia con i piccoli pesi, come quella che un tempo si vedeva spesso quando si andava ad acquistare qualcosa dal casoìn, la piccola e ben nota bottega di generi alimentari, o coloniali, tipica del nostro territorio e non solo; ma poi erano esposti anche piccoli aerei di varie epoche (realizzati con candele d’auto), un veliero e vari animali.
Un’attenzione e un ricordo particolari, però, Dino Vidotto li ha rivolti agli anziani che, nell’immediato primo dopoguerra, trovarono il modo di esternare tutta la loro creatività, soprattutto se abitavano vicino agli argini del Piave, attraverso il riutilizzo di reperti bellici, usati per esempio a mo’ di soprammobile, o come vasi portafiori o, come ci ha dimostrato, per fare degli scaldaletto con ciò che rimaneva dei bossoli trovati, modificati in base alle esigenze domestiche di allora.
Tra gli oggetti relativi ai periodi bellici, uno – al quale Dino è più affezionato – gli ha strappato un momento di commozione: una piccola trancia che era stata usata da uno zio della moglie per tranciare il filo spinato, quando faceva il militare, durante la prima guerra mondiale.
A questo punto Dino Vidotto ci ha fatto conoscere l’amico Graziano Scolaro, un grande appassionato di un’arte diversa, ma che richiede altrettanta abilità e pazienza: il modellismo. Lo stesso Graziano ha dato il proprio apporto a questo evento espositivo e ci ha presentato delle vere e proprie opere d’arte da lui realizzate. Innanzitutto, l’estrema accuratezza dei diversi modellini di carri agricoli (quelli che andavano generalmente trainati da buoi), come la cosiddetta barèa, un carro a due ruote con il pianale ribaltabile, che veniva usata per trasportare letame o terra; e poi un aratro, perfetta miniatura di quello tipico, usato per il traino effettuato dai famosi trattori a “testa calda”, un soltzariol (o solcheta) e altri modelli di assolcatori. Particolari ci sono sembrati il cantier, un attrezzo che serviva al contadino per fare piccoli lavori di falegnameria svolta a livello famigliare, e la mussa, un attrezzo sul quale si poteva operare rimanendo seduti e serviva per costruire diverse cose, anche gli zoccoli.
Ma facevano anche bella mostra di sé diversi giocattoli, come le varie racoéte (adoperate dai bambini durante la processione del venerdì santo) e giocattoli semplici fatti di legno, specifici di quel tempo.
Particolarmente graziosi erano anche i modellini di vari attrezzi usati dalle donne per fare un tempo il bucato.
Per il settore del vino, per esempio, erano esposti i modellini di: un torchio per spremere la vinaccia, il “sot-spina”, il bigoncio che veniva messo sotto quella specie di rubinetto di legno che si poteva chiudere con una particolare “spina” conica, ossia la càndoea della brenta (il tino che raccoglieva l’uva pigiata per produrre il mosto) e la misura, un contenitore particolare che serviva a raccogliere il vino dal “sot-spina” e versarlo nella botte.
Seguivano diverse miniature straordinarie: il bigol (il caratteristico arconcello da portare sulle spalle per il trasporto di liquidi come acqua, latte etc., oppure granaglie, uve o derrate alimentari), gioghi per i buoi, un rastrello, una forca, una zappa, una pala, e varie piccole botti con gli strumenti utilizzati dal botter per battere i cerchi.
Graziano Scolaro si diletta anche a realizzare modellini di altre strutture, non solo tipiche del nostro territorio: pozzi artesiani tipicamente veneziani o di foggia tirolese, carrozze d’epoca e bellissime fontane in miniatura con acqua corrente.
Ma non è finita qui, perché esposti in giardino vi erano anche arnesi in uso un tempo nelle nostre famiglie contadine. Di nuovo Dino Vidotto ha dimostrato il loro utilizzo: gli oggetti usati per il trasporto del latte o la bicicletta adoperata per vari usi dal contadino, e perciò munita dei vari attrezzi utili al lavoro nella palude, lontano da casa (falce, forca, rastrello, il coder, la piantoea per battere la falce e, infine, il fiaschetto per l’acqua) oppure usata per trasportare il latte issando sul bastone un comodo attrezzo in legno.
In bella mostra, non potevano mancare neppure la panera per mettere pane e farina, il paiolo, una mussa per sgranare le pannocchie, o ancora el tajafòja, (l’attrezzo usato da tante nostre famiglie del Basso Piave, con la falce e la leva del vericello, per tagliare le foglie da dare ai bachi da seta) e naturalmente l’attrezzo da sgaetàr, ossia per pulire la bavella dei bozzoli di seta.
Dino Vidotto ha conservato anche seminatrici del mais, quelle che venivano trainate da un bue o da un asino: dentro ai due contenitori muniti di un disco interno venivano versati i chicchi da seminare e il disco, ruotando a tempo determinato, li faceva cadere nei solchi, così potevano essere seminati alla distanza voluta.
Non ci saremmo mai stancati di sentir Dino argomentare sui molti altri oggetti esposti, ma il tempo è passato in fretta e, al termine della sua ampia esposizione, ci ha voluto esternare la sua grande devozione alla Vergine: per questo motivo, fra le sue opere a carattere religioso e costruite adoperando prevalentemente dei chiodi forgiati, simili a quelli usati per la Croce, non solo ci ha colpito la “Pietà” in ferro battuto (che richiama quella di Michelangelo), ma anche quella che tiene gelosamente conservata dentro casa: una Madonna inserita in una struttura di ferro battuto a forma di conchiglia.
E infine, per deliziarci ancora, Dino ci ha salutato mostrandoci un triangolo (lo strumento musicale) e una campanella, facendoci ascoltare i differenti e particolari suoni che questi oggetti, da lui costruiti, producono.
Noi siamo grati per l’occasione offertaci da Dino Vidotto e Graziano Scolaro, nonché dagli amici che li hanno aiutati a predisporre tutto il materiale esposto, e per averci consentito di poter documentare, anche in futuro, l’intera esperienza così fatta con loro.
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